Politico, il quotidiano statunitense, torna sul caso Al-Masri, ricostruisce la vicenda e avanza due possibili spiegazioni per il rilascio del libico da parte del governo italiano: la preoccupazione per l’incolumità del corpo diplomatico italiano a Bengasi e il ruolo di informatore di Al-Masri
Politico, il prestigioso quotidiano statunitense, ha dedicato la sua apertura a un lunghissimo approfondimento sul “caso Al-Masri” e alle responsabilità della politica italiana nel rilascio di un uomo ricercato dalla Corte Penale Internazionale con accuse di crimini contro l’umanità. “Secondo i documenti giudiziari visti da POLITICO, Al-Masri arrivò al potere combattendo le forze di Gheddafi nel 2011, quando prese il controllo dell’aeroporto più importante del paese, Mitiga, trasformandolo in un vasto centro di detenzione dove, secondo la CPI, le sue forze commisero stupri, torture e abusi sui diritti umani”, scrive il giornale.
La decisione del suo rimpatrio, maturata a 48 ore dal suo arresto ed eseguita attraverso un volo di stato, è costata una denuncia, presentata dall’avvocato Luigi Ligotti, nei confronti della Premier, del ministro dell’interno Matteo Piantedosi, del ministro della giustizia Carlo Nordio e del sottosegretario Alfredo Mantovano.
LE INCERTEZZE DEL MINISTRO CARLO NORDIO SUL CASO AL-MASRI
Il longform offre una ricostruzione del profilo del libico e sottolinea le indecisioni e le incertezze della politica italiana. Il ministro Nordio, nella sua audizione in Parlamento del 3 febbraio, aveva dichiarato che il Ministero della Giustizia italiano aveva trovato i documenti inviati dalla CPI contraddittori “per lo più in inglese e arabo e quindi difficili da comprendere”. Una posizione sconfessata da Claudia Gazzini, analista senior per la Libia dell’Ong International Crisis Group sentita da Politico. “Il documento della CPI era “chiaro, con solo errori di battitura minori” – dice a Politico l’analista Gazzini -. Il governo italiano, come altri stati, aveva precedentemente elaborato e approvato mandati di arresto della CPI contro libici, e avrebbe potuto aspettare che gli errori venissero corretti o arrestare nuovamente il militante anche in caso di errore procedurale”.
LE PREOCCUPAZIONI PER LA SICUREZZA DEL PERSONALE DIPLOMATICO
Fin qui nulla di nuovo. Più interessanti sono due passaggi che provano a spiegare la decisione del governo di rilasciare un uomo ricercato dalla CPI con gravissimi capi di imputazione (omicidi, stupri e torture). Il primo riguarda la “sicurezza nazionale”, evocata anche dalla Premier Meloni. “Meloni aveva effettivamente preoccupazioni immediate per la sicurezza – scrive Politico -. Solo pochi giorni prima, la premier aveva ottenuto il rilascio della giornalista italiana Cecilia Sala, rapita dalle autorità iraniane — e c’erano timori che potesse accadere una cosa simile allo staff dell’Ambasciata italiana a Tripoli”, secondo quanto riferito da due fonti del quotidiano. “Gli spostamenti dei dipendenti dell’ambasciata – spiega Politico -, un edificio fortificato nei pressi di un albergo, sono controllati e persiste una paura per la sicurezza del personale consolare nel paese. Un timore risalente all’attacco mortale all’Ambasciata degli Stati Uniti a Bengasi nel 2012”.
SECONDO POLITICO AL MASRI ERA CONSIDERATO UNA RISORSA
Ma non sarebbe stata solo la legittima preoccupazione per la sicurezza del corpo diplomatico a motivare il rilascio di Al-Masri. “Dalla caduta di Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia è rimasta divisa tra amministrazioni in conflitto, legate a potenti milizie, rendendola vulnerabile all’influenza straniera, in particolare da parte dell’Italia”, scrive Politico. Il nostro paese avrebbe mantenuto i suoi storici legami con il paese “sviluppando importanti accordi nel settore petrolifero tramite la sua principale compagnia energetica, Eni, e collaborando con i capi delle milizie per controllare i flussi migratori verso l’Europa”. Nel 2012 l’Italia ha firmato la Dichiarazione di Tripoli nel 2012 “impegnandosi a supportare la ricostruzione della Libia e a formare le forze del paese”, ricorda il quotidiano, e nel 2017 “l’allora Primo Ministro Paolo Gentiloni firmò il Memorandum Italia-Libia, un controverso patto sulla migrazione che finanziava e equipaggiava la Guardia Costiera libica”.
Un accordo rinnovato nel 2019 e nel 2023. Una relazione, quella con la Libia, confermata anche dal Governo Meloni con “un accordo sul gas del valore di 8 miliardi di dollari nel 2023” e con il Piano Mattei, “una strategia per aumentare l’influenza dell’Italia in Africa”, non a caso intitolata al “leggendario fondatore dell’Eni che negli anni ’50 trasformò la compagnia petrolifera in uno “stato nello stato”, funzionando come il braccio di politica estera de facto del governo italiano in Nord Africa. Oggi l’azienda esercita ancora un’enorme influenza, collaborando alla produzione dell’80% di gas della Libia nel 2024”.
Al-Masri, dunque, secondo il quotidiano statunitense, era visto dai “funzionari italiani e di altri paesi occidentali” come “una risorsa utile” perché “sotto la sua gestione, la prigione divenne una fonte fondamentale di informazioni per i governi stranieri, con i servizi segreti che pagavano visite regolari per interrogare i detenuti legati allo Stato Islamico e altri radicali”.
LA MANCATA RAGION DI STATO NEL CASO AL-MASRI
Il pressing di Politico si affida anche alle parole di Giovanni Orsina, professore di storia contemporanea presso l’Università Luiss. “Avrebbero dovuto dichiarare immediatamente che si trattava di una questione di interesse nazionale. Imporre la segretezza statale e chiudere il caso lì – ha detto Giovanni Orsina a Politico -. Invece il Governo si è rifugiato dietro tecnicismi legali, e credo che sia lì che abbiano commesso un errore, perché, invece di risolvere la questione, l’hanno di fatto complicata molto di più”. Una posizione sovrapponibile a quella del prof. Mario Esposito, costituzionalista dell’Università Luiss, raggiunto da Policymakermag pochi giorni dopo che la Premier Meloni era stata raggiunta dall’informazione di garanzia nell’ambito del rilascio del libico. “Mi sembra paradossale che le giustificazioni governative siano in termini giudiziari e non politici – ci aveva detto il prof. Esposito -. Se fosse stato gestito diversamente, alla denuncia fatta dall’avvocato Li Gotti, il Governo si sarebbe potuto opporre dicendo di aver seguito le procedure che sono proprie della sicurezza nazionale. Altrimenti la politica accetta di portare il contraddittorio nelle aule di giustizia, sovraccaricandole di compiti che non hanno e che forse non vogliono neanche avere”.