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Da Capitol Hill all’attentato a Trump, una scia di violenza animata dal populismo. Parla il prof. Margelletti

L’attentato ai danni del presidente Trump restituisce la fotografia di una superpotenza americana attraversata da profonde fratture e da una pericolosa inclinazione al ricorso alla violenza. L’intervista al prof. Andrea Margelletti

L’ex presidente e candidato presidente Donald Trump è stato vittima di un attentato durante un comizio a Butler, in Pennsylvania. L’attacco, a opera del ‘lupo solitario’ ventenne Thomas Matthew Crooks, freddato dai servizi di sicurezza, solo per un caso fortuito non si è rivelato fatale.

Il 45esimo presidente degli Usa è solo l’ennesimo esempio di come il ricorso alla violenza politica sia una pratica consolidata negli Stati Uniti d’America, che, nel corso degli anni, si è abbattuta su Presidenti, candidati presidenti, governatori e senatori. E che oggi offre lo spaccato di una superpotenza indebolita dalle aspre divisioni interne.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con Andrea Margelletti, Presidente del Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali.

Come cambia, se cambia, la corsa delle elezioni presidenziali negli Usa dopo l’attentato a Donald Trump?

Trump può aver guadagnato qualche punto perché nel momento della verità ha mostrato molta energia, molta determinazione e questo si contrappone alle debolezze che sta mostrando il Presidente in carica. Quindi nell’elettorato incerto questo dettaglio potrebbe spostare un po’ di voti. Certamente chi era convinto di votare Trump continuerà a sostenere e poi a votare Trump, chi è ostile a Trump ed è assolutamente convinto di votare Biden, continuerà sostenere e poi votare Biden.  Nell’elettorato incerto, che è sempre importante e contestualmente fluttuante, la reazione di Trump potrebbe aver convinto molti della sua forza e della sua capacità di gestire un paese.

Esiste un legame tra quanto accaduto nel corso del comizio di Trump in Pennsylvania e l’assalto a Capitol Hill nel 2021?

Esiste un legame ed è dovuto al fatto che, in tutti i paesi occidentali, per via di un eccesso di populismo, si è creata una polarizzazione violenta tra i candidati. La polarizzazione ha fatto sostituire la critica ai programmi con la lotta, il contrasto personale. Questo, nelle menti più fragili, può far sviluppare l’idea che ci si trovi davanti non un avversario politico, da combattere sul campo della competizione elettorale e democratica, ma di un nemico. Un nemico da abbattere.

Perché è così frequente nella storia degli Usa che i presidenti, candidati presidenti o governatori, siano vittime di attentati?

Fa parte della cultura americana. È frutto della cultura americana nei confronti delle armi che fa pensare che il nemico debba essere eliminato. Lei pensi a quello che succede nei film western, sono racconti basati su quello che è successo nell’Ottocento nella frontiera americana. Ecco lì viene messa in scena lo scontro tra il buono e cattivo, scontro che viene risolto attraverso la sfida. Cosa che non è mai avvenuta in Europa. Dove noi abbiamo decapitato intere classi dirigenti ma non abbiamo la cultura della sfida tra singoli.

La sfida per la Casa Bianca vede un Presidente in carica che sta dimostrando difficoltà oggettive, anche legate alla sua età, e uno sfidante, anch’egli anziano, che due giorni fa è stato vittima di un attentato. Quella che ci viene restituita è l’immagine di una superpotenza americana debole?

Un candidato ha 78 anni e l’altro 81, entrambi sono agée.  In questa corsa si discute più delle caratteristiche fisiche dei candidati che della loro capacità di mantenere le promesse elettorali e di saper conservare l’unità del paese. Questo è il vero problema. Se noi pensiamo che il miglior candidato presidente sia una persona in perfetta forma fisica ma che magari non sa fare il suo mestiere o non sa mantenere le sue promesse, ecco questo è un problema grande.

Anche questo deriva da un approccio populista?

Sì, io continuo a sostenere che noi dobbiamo avere persone, in ogni settore della società, che sappiano di che cosa parlano e sappiano fare il loro mestiere. A prescindere dall’età.

Le élite del Partito democratico stanno provando sfiduciare il presidente Biden mettendone a rischio la competitività. Questo rende la democrazia americana più fragile?

La democrazia non viene messa in crisi dalle élite ma dagli elettori. Se abbiamo classi dirigenti deboli la responsabilità è degli elettori che non pretendono di più dalle loro classi dirigenti. Noi mettiamo spesso la croce sulle spalle di chi ci governa perché non abbiamo il coraggio di ammettere che li abbiamo eletti noi.

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