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Noemi Di Segni

Francesco, uomo del dialogo. Ma su Gaza le accuse di genocidio sono inaccettabili. Parla Noemi Di Segni (presidente Ucei).

Dalla visita al Muro del pianto all’uso del termine “genocidio” per parlare di Gaza. Il portato del dialogo, tra inciampi e risalite, tra Papa Francesco e la comunità ebraica. Intervista a Noemi Di Segni, presidente dell’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane).

La relazione tra due importanti e antiche fedi religiose è un percorso non semplice che a volte si fa più irto. La relazione di Papa Francesco con “i fratelli maggiori” della comunità ebraica è stata all’insegna della collaborazione, del dialogo e della fratellanza. Ma non è stata esente da richiami e criticità, come quelle dell’ultimo periodo.

Ne abbiamo parlato con Noemi Di Segni, presidente dell’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane).

Come valuta l’operato di Papa Francesco in merito al dialogo interreligioso con la comunità ebraica?

Negli ultimi dieci anni ho avuto diverse occasioni di incontro e di confronto con Papa Francesco. A mio avviso, il suo operato si articola su diversi piani.
Anzitutto, da un punto di vista teologico: proseguendo nel solco dei suoi predecessori e della Nostra Aetate, Papa Francesco ha sottolineato l’importanza del riconoscimento delle radici ebraiche del cristianesimo. Egli ha riconosciuto che il cristianesimo nasce dall’ebraismo e ne porta i fondamenti religiosi, pur sviluppandosi poi con una sua magnificenza e grandezza. Ma il cristianesimo è fatto anche di una parte molto buia e lo sappiamo bene. La criticità nel rapporto tra cattolicesimo ed ebraismo è il tema della “sostituzione”, ovvero l’idea che il cristianesimo sostituisca l’ebraismo. La visita alla sinagoga di Roma ha rappresentato un momento emblematico della relazione di amicizia che Papa Francesco è riuscito a costruire.
L’altra dimensione è quello della responsabilità storica della Chiesa nella persecuzione antigiudaica e le responsabilità della Chiesa nei secoli fino ad arrivare alla Shoah. Papa Francesco ha mostrato la volontà di chiedere perdono e di comprendere profondamente come si sia arrivati alla Shoah: un percorso che non nasce dal nulla, ma è frutto di secoli di atteggiamenti e messaggi espliciti o impliciti che hanno radicato l’antisemitismo.
Infine, c’è il tema della relazione con Israele e con lo Stato ebraico. Il Vaticano ha rapporti diplomatici da diversi decenni, molto incisivi ed importanti. Un esempio ne è stata la visita al Muro del pianto, frutto di un lavoro intenso delle diplomazie, una svolta fondamentale nella storia.

Certo nell’ultimo anno e mezzo le cose sono diventate un po’ più delicate, per via di sue esternazioni molto faticose che riguardano la guerra e della possibilità di considerare genocidio quello che accade a Gaza.

Com’era il suo rapporto personale con Papa Francesco?

Direi umano e diretto, come era nel suo stile. Al di là delle formalità del titolo, lo si percepiva sempre prima di tutto come persona. Il Papa si è sempre mostrato molto attento e puntuale.

Nel suo ultimo messaggio Papa Francesco ha ricordato i tanti conflitti che attraversano il nostro tempo. Crede che questo possa essere considerato il suo testamento spirituale?

Io credo che il testamento spirituale di Papa Francesco sia molto più ampio. Il suo messaggio riguarda prima di tutto il rapporto con le persone, specialmente con i bisognosi. Il tema della pace, la speranza di pace e la responsabilità di ciascuno per adoperarsi per la pace è parte centrale di questo messaggio come il bisogno di imparare a convivere tra fedi e culture diverse.
Il Papa lancia appelli che non sono per cose facili o immediate, ma che toccano le dimensioni più profonde dell’essere umano e della collaborazione tra esseri umani.
Però, quando questi appelli toccano il tema di Israele o del popolo ebraico, bisogna scegliere con cura le proprie parole. Abbiamo alle nostre spalle un’esperienza di storia e di dolore che richiedono estrema attenzione. Se da parte del Papa l’appello arriva dal cuore c’è chi raccoglie questo appello, sempre focalizzato su Israele, come giustificazione e strumentalizzazione per alimentare odio antiebraico.

Si riferisce all’uso del termine genocidio per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza?

L’accusa di genocidio è particolarmente dolorosa per noi, come ha detto Edith Bruck il genocidio si pianifica a tavolino, su dieci dimensioni diverse, non è una semplice guerra. La guerra è terribile ma il genocidio è un’altra cosa. È un’accusa inaccettabile se rivolta alla comunità ebraica. L’utilizzo di quella parola genera responsabilità e genera un assist a chi non lo usa, come il Papa, per esprimere un accorato appello per trovare il modo di raggiungere convivenza e pace o negoziati tra nemici che portano alla fine della guerra, ma per proseguire lungo la strada dell’odio antiebraico.

Il mio accorato appello qui in Italia è per la convivenza e io lo rivolgo, in prima battuta, ai musulmani. Io sono sicura al 100% che tutte le persone che vivono come musulmani in Italia non hanno alcun desiderio di dare spazio e legittimazione ad Hamas. Perché solo chi è palestinese e musulmano sa cosa vuol dire Hamas e il suo fondamentalismo. Nessuno vuole Hamas, né io né i musulmani. Mi dispiace che in Italia ci sia chi usa la bandiera di Hamas per protestare contro Israele.

Abbiamo visto che i funerali di Papa Francesco sono stati un’occasione di confronto diplomatico. È stato così anche per lei?

Ieri ho partecipato al funerale di Papa Francesco. Uscendo dal funerale ho abbracciato esponenti della comunità musulmana italiana e ci siamo ripromessi di vederci e di stare insieme per dare l’esempio. Io riesco meno, invece, a dialogare con quelle persone, italiane, che sventolano la bandiera di Hamas e ribaltano le responsabilità di Netanyahu su tutti gli ebrei. A me addolora e preoccupa questa Italia.

Che opinione ha del ritardo di comunicazioni ufficiale del presidente Netanyahu per la morte di Papa Francesco?

Credo che sia stato un errore. Non parlerei di volontà di offesa, ma forse di una sottovalutazione. Il Papa non è stato solo un capo di Stato, è il leader religioso di miliardi di persone. È una relazione che prescinde quelle personali. Anche se ci sono tensioni e dolori, vanno gestite nel rispetto dei ruoli. Certo, poteva fare affidamento sul fatto che Isaac Herzog, che rappresenta lo Stato d’Israele, avesse già espresso cordoglio, però non va sottovalutata la relazione diplomatica e il fatto che quando il Primo ministro di Israele parla o non parla l’impatto riguarda il mondo ebraico nel suo insieme. Le parole del Primo Ministro hanno un riverbero importante che riguarda tutto il mondo ebraico, ben oltre Israele. Per noi essere riconosciuti come fede dialogante e presente nel rapporto con il Papa è importante, non siamo i perseguitati dentro il Ghetto di Roma del 1555, siamo una fede presente, con tutti i rispetti e gli onori nelle sale del Vaticano.

Guardando al futuro, quali caratteristiche dovrebbe avere il prossimo Papa per facilitare il dialogo interreligioso? 

Quello che auspico è che il nuovo Papa, chiunque sarà, sappia dare concretezza al cammino avviato dalla Nostra Aetate sessant’anni fa. Un documento fondamentale del rapporto della Chiesa con l’ebraismo che deve essere vissuto ogni giorno, raggiungere le periferie della Chiesa e non solo i vertici. Nell’anno del Giubileo, per il popolo della cristianità, è importante ricordare l’origine ebraica del cristianesimo, la Terra Santa fa parte del percorso giubilare.

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