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Nicola Rossi Pnrr italia economia

“I dazi di Trump non renderanno ricchi gli Usa”. Parla Nicola Rossi (IBL)

I dazi non servono solo a “fare cassa” ma a rafforzare il ruolo del dollaro e degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Intervista al prof. Nicola Rossi, economista dell’Università di Roma Tor Vergata e componente del cda della fondazione dell’Istituto Bruno Leoni

Dopo mesi di annunci e minacce, la settimana scorsa il Presidente statunitense Donald Trump ha comunicato l’introduzione dei dazi nei confronti dei partner e competitor commerciali. I dazi più alti sono andati alla Cambogia (49%), al Laos (48%), al Madagascar (47%) e al Vietnam (46%). Tariffe pesanti anche per la Cina, al 34%, e l’Indonesia, al 32% come Taiwan. Anche l’Ue è stata colpita, con dazi al 20%.
L’imposizione di dazi ha sollevato diversi interrogativi su scala globale. Si tratta davvero solo di una guerra commerciale o c’è qualcosa di più profondo in gioco?

Ne abbiamo parlato con il professor Nicola Rossi, economista dell’Università di Roma Tor Vergata e componente del cda della fondazione dell’Istituto Bruno Leoni, che ci aiuta a decifrare il significato reale delle misure adottate da Washington, il loro impatto sull’economia globale e le possibili risposte dell’Europa.

A cosa servono davvero i dazi imposti dagli Stati Uniti?

La prima domanda da porsi riguarda il modo in cui le misure sono state presentate e ne è stata determinata l’entità: in maniera confusa e, per certi versi, francamente risibile. Confondere, anzi scambiare, le barriere tariffarie al commercio internazionale con il disavanzo bilaterale negli scambi è un errore concettuale che nemmeno uno studente al primo anno di economia dovrebbe fare. Ecco, questo mi porta a chiedermi quale sia il reale motivo.

Secondo lei qual è?

La mia sensazione è che l’obiettivo reale non sia quello dichiarato ufficialmente, ma piuttosto riportare all’interno degli Stati Uniti le produzioni di aziende americane oggi dislocate all’estero, come Nike, che produce scarpe e altri oggetti in Vietnam.

Un secondo obiettivo è scoraggiare le imprese straniere dal produrre all’estero beni destinati, in maniera significativa, agli USA, inducendole a spostare la produzione sul suolo americano per evitare i dazi. Cosa, peraltro, non facile perché bisogna avere la manodopera adeguata.

Nel corso della conferenza stampa in cui sono state annunciati i dazi era stato detto anche che avrebbero portato grandi risorse nelle casse dello Stato. Come si sposa con il suo discorso?

Sì, nella conferenza stampa si è parlato di un flusso significativo di risorse provenienti dai dazi.

Ma c’è una contraddizione evidente. Se l’obiettivo è rimpatriare le produzioni, allora le importazioni diminuiranno e i dazi non genereranno gettito. Mentre, se invece si punta solo al gettito, allora le imprese non rimpatrieranno. Però, aggiungo, in quest’ultimo caso si porta a casa anche inflazione e non ci saranno nuovi posti di lavoro.

Quindi: o l’una o l’altra, ma non entrambe. La conferenza stampa, da questo punto di vista, è stata imbarazzante, onestamente.

Cosa vuol dire che il crollo in Borsa, che ha seguito l’imposizione dei dazi, ha “bruciato” 2.000 miliardi di dollari?

Questa espressione è fuorviante. Non è che quei soldi siano “spariti”. Se uno mantiene le azioni, può darsi che i valori risalgano e quindi non si perde nulla.

Il problema è un altro: negli Stati Uniti i grandi fondi che possiedono le azioni erogano servizi sotto forma di pensioni o sanità. Questo significa che se il mercato crolla, le prestazioni per i cittadini calano (un assegno pensionistico meno pesante, per esempio) quindi l’impatto è reale e diretto, ma non nel senso di una “sparizione” istantanea di denaro.

Come può l’Unione Europea rispondere ai dazi statunitensi?

Penso che l’approccio adottato finora sia ragionevole e saggio, si è deciso di prendersi il tempo necessario, di essere disponibili a negoziare, di valutare attentamente eventuali contromisure, e, soprattutto, di agire in maniera unitaria. Non ci sarebbe nulla di più dannoso di andare in ordine sparso sarebbe dannoso.

Però, tornando a quello che dicevo all’inizio, questa non è solo una guerra commerciale. C’è in gioco il ruolo del dollaro e degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Quindi mi sembra che sia il caso di attrezzarsi a qualcosa che va oltre una pura e semplice guerra commerciale.

Le perdite economiche europee dovute ai dazi potranno essere compensate, ad esempio, da accordi come quello con il Mercosur?

Certamente, diversificare l’export è un tentativo che va fatto. Il mondo è grande e costruire nuovi mercati è possibile, ma non si fa nello spazio di una notte, sono cose che richiedono tempo.

Non ci si può aspettare risultati immediati, ma l’obiettivo è realistico e va perseguito con determinazione sia a livello nazionale che europeo.

L’Italia può percorrere strade autonome, al di fuori dell’Unione Europea?

No, sarebbe un’illusione pericolosa. La vera autonomia per l’Italia consiste nel rafforzare e contribuire a una posizione europea unitaria. Io mi aspetto che il ruolo dell’Italia si veda lì. Un approccio bilaterale con gli Stati Uniti ci porrebbe in una posizione secondaria e svantaggiata.

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