Il professore emerito di diritto penale Giovanni Fiandaca, un mito per i garantisti, tradisce Nordio sul concorso esterno in associazione mafiosa. I Graffi di Damato
Bel colpo per un giornale come Repubblica – anche se pubblicato ieri con insolita discrezione all’interno, senza uno straccio di richiamo in prima pagina, magari sotto il titolo dedicato al “governo diviso su Nordio” – l’intervista nella quale il professore emerito di diritto penale Giovanni Fiandaca, un mito per i garantisti, ha dissentito dal proposito del ministro della Giustizia di “rimodulare”, riscrivere e quant’altro, pur senza abolirlo, quel reato misterioso che è sempre stato il concorso esterno in associazione mafiosa. Un ossimoro, lo considera il guardasigilli, che deve essersi sentito tradito da Fiandaca più ancora che dal sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, intervenuto per escludere un intervento su quel reato fra le “priorità” del governo.
Intervistato da Liana Milella – della quale non mi è mai capitato di cogliere un sorriso sul volto, e che di solito interroga come un pubblico ministero l’interlocutore, sino a procurarsene qualche volta reazioni di fastidio – il professore Fiandaca ha detto che “ora non è il momento” di un intervento legislativo sul concorso esterno in associazione mafiosa perché “troppo forte la contrapposizione politica, anche se si tratta da sempre di un intervento necessario”.
Piuttosto che “aggravare la nevrosi politico-istituzionale determinata dal conflitto tra politica e giustizia è meglio che sia la Cassazione – ha detto il giurista – a cercare di migliorare per via giudiziaria la tipizzazione del concorso”. Non ho mai sentito formulare così chiaramente una richiesta alla politica di rinunciare alla propria sovranità per lasciare ai magistrati la sostanziale formulazione delle leggi. È qualcosa che assomiglia alla resa della politica alla giustizia avvenuta ai tempi di Tangentopoli, o “Mani pulite”, con la rinuncia del Parlamento alle autorizzazioni a procedere contro i suoi esponenti richieste dall’originario articolo 68 della Costituzione.
Bel colpo, ripeto, per un giornale come Repubblica, ma bruttissimo per quanti giustamente aspirano a riequilibrare i rapporti fra politica e magistratura “bruscamente cambiati” fra il 1992 e il 1993, secondo una famosa e per niente entusiastica osservazione di Giorgio Napolitano nel 2010 al Quirinale.
Meno clamoroso per il livello dell’intervento, senza volere offendere l’interessata, ma pur sempre significativo è l’invito rivolto sulla Stampa di ieri, in prima pagina, a Giorgia Meloni dall’ex direttrice del Secolo d’Italia Flavia Perina a liberarsi del fantasma, ormai, di Silvio Berlusconi per affrontare i problemi della giustizia in una chiave praticamente più consona alle posizioni originarie, per niente garantiste, della sua parte politica. E ciò specie a pochi giorni dalla celebrazione del 31° anniversario della strage di via D’Amelio, a Palermo, dove fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino. La cui fine scosse tanto la pur quindicenne Meloni da farle venire la voglia o la vocazione politica.