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Vi racconto il vero Silvio Berlusconi, un napoletano nato a Milano

Carlo Garzia, giornalista ,ex collaboratore dell’ufficio studi e comunicazione del Cavaliere, racconta il “suo” Berlusconi e il dietro le quinte di un personaggio che ha cambiato il volto dell’Italia

Silvio Berlusconi non amava la politica, men che mai la politica del nostro Paese, ma amava l’Italia. Può sembrare un’affermazione infondata, dal momento che ha vissuto da protagonista, al governo o all’opposizione, gli ultimi trent’anni di storia della Repubblica e visto che in molti lo ricordano al lavoro su “questioni parlamentari e di partito” fino a pochi giorni, o addirittura poche ore, prima del decesso. Eppure a me, da quando lo conobbi, è sembrato che fosse così. Gli piaceva la competizione elettorale, questo sì, ma la politica non era la sua aspirazione naturale: si sentiva in campo per senso del dovere. Gli piaceva darsi obiettivi sempre molto ambiziosi, e tanto più sembravano irrealistici agli occhi degli altri, tanto più era motivato a raggiungerli e a superarli. Ovviamente gli piaceva vincere, qualunque fossero il terreno e la posta in gioco, ma per lui la politica non era un fine. Era soltanto un mezzo: un mezzo per attuare la rivoluzione liberale e per fermare i “comunisti”, dicono i suoi sostenitori; un mezzo per difendere i propri interessi personali, dicono i suoi detrattori.

Quando nell’aprile del 2015 mi chiamarono, chiedendomi se me la sentissi di andare a lavorare per il “Presidente”, all’inizio non avevo neppure capito che si trattava di Silvio Berlusconi. Chi frequenta gli ambienti parlamentari sa che moltissimi deputati e senatori vengono chiamati “presidenti”, perché presiedono o hanno presieduto in passato qualcosa. Ci sono i presidenti e i vicepresidenti di Camera e Senato, quelli di commissioni, giunte, comitati, delegazioni, bicamerali e dei gruppi parlamentari. E credevo che mi stessero ingaggiando temporaneamente per l’ufficio stampa di qualcuno dei suddetti in vista dell’imminente tornata elettorale che avrebbe coinvolto 7 regioni.

Avevo capito male. Mi proposero di lavorare per Silvio Berlusconi in persona. Non lo avrei mai potuto immaginare, neppure lontanamente, e del resto non è che si entra a far parte dello staff di Berlusconi dopo aver mandato il curriculum. Non è così che funziona: è lui che chiama le persone che gli interessano. Ero ghostwriter di alcuni deputati forzisti, quelli che giornalisticamente vengono definiti “peones”, ma siccome il Presidente era un lettore attento di tutto ciò che dicevano i “suoi” in Parlamento, aveva apprezzato alcuni discorsi pronunciati nell’Aula della Camera e aveva mandato i suoi dirigenti a cercare chi li avesse scritti. Non ho mai scritto nulla che meriti di essere ricordato negli annali parlamentari, né per stile né per contenuto, eppure qualcosa gli era piaciuto. Forse perché il Presidente, che si è sempre considerato un napoletano nato a Milano, aveva apprezzato la schiettezza e la veracità partenopea rispetto al classico e stantio linguaggio da “teatrino della politica”.

Berlusconi aveva non solo l’abitudine di non frapporre alcun ostacolo fra sé e i suoi interlocutori, mettendoli tutti a proprio agio, ma in sua presenza sparivano le gerarchie cosicché i soldati semplici si sentivano pari grado dei colonnelli e allo stesso modo venivano ascoltati durante le riunioni di lavoro. Il suo carisma infondeva al contempo benevolenza e rispetto, ma, anche qui, non si trattava di una questione politica, ma squisitamente caratteriale ed umana. Era un uomo potente che però si faceva piccolo da far sembrare gigante chi aveva davanti a sé, chiunque egli fosse. Un giorno gli dissi: “se lei avesse il tempo e la possibilità di stringere la mano ad ogni italiano, avrebbe 60 milioni di sostenitori e anche i comunisti la voterebbero”. Era impossibile non volergli bene, comunque la si pensasse politicamente. Chi non gliene ha voluto è soltanto perché non l’ha mai conosciuto ed incontrato. Arrivai che il suo partito e il suo Milan (suo ancora per poco) non erano certamente nella fase ascendente, tutt’altro. Le vittorie si facevano più rare ed altri partiti, altri leader ed altri club lo avevamo o lo stavano sorpassando, ma nessuno riusciva comunque a rubargli la scena. Berlusconi era Berlusconi e dovunque andasse, dovunque andassimo, era sempre un bagno di folla.

Ricordo le cene ad ora tarda per lavorare su interviste, ospitate tv, discorsi pubblici e strategie elettorali; la volta in cui svenni e me lo ritrovai davanti a me, quando riaprii gli occhi, che mi infondeva coraggio; l’invito ai suoi dipendenti e collaboratori di non dimenticare mai di spegnere le luci degli uffici di Palazzo Grazioli prima di tornare a casa dopo il lavoro; il volto felice e illuminato quando parlava del Milan. Ricordo quando lo chiamarono per dirgli che sarebbe stato meglio esonerare l’allenatore Sinisa Mihajlovic e lui rispose che non poteva mandar via “un padre che ha cinque figli da mantenere”. Berlusconi era così, di una straordinaria attenzione e generosità verso tutti, generosità che nella vita privata è virtù ma che nella vita politica può essere vizio perché premia anche chi è senza merito.
Indimenticabile la volta in cui mi disse a bruciapelo: “Garzia, lei ha un problema, è disoccupato”. E ancora una volta io non capii che cosa stesse succedendo. Il contratto di collaborazione, nato per le elezioni regionali, era in effetti scaduto e io non venivo più pagato. Tale era l’entusiasmo di lavorare per il Presidente che neppure me n’ero accorto. Poi, a distanza di un paio di settimane, dopo un evento pubblico, mi si avvicinò e mi disse: “credo di aver risolto il suo problema”. E mi fece avere un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non col partito, non col gruppo parlamentare, ma che recava in calce il nome Silvio Berlusconi. Una cosa rarissima, riservata a pochissimi, conclusasi poi con la dismissione del suo appartamento e dei suoi uffici di Palazzo Grazioli.
Berlusconi avrebbe voluto per l’Italia un sistema bipolare forgiato a immagine e somiglianza delle grandi liberaldemocrazie occidentali, con due schieramenti contrapposti, ma senza estremismi, un sistema in cui l’alternanza al governo fosse fisiologica e non facesse mai correre pericoli all’Italia, chiunque risultasse vincitore alle elezioni: un centrodestra liberalpopolare da un lato e un centrosinistra socialdemocratico dall’altro.

E avrebbe desiderato vedere un’Italia finalmente pacificata, ma in vita purtroppo non c’è riuscito, tali sono stati l’odio e l’accanimento contro la sua persona. Eppure, questo è stato forse il suo maggiore insegnamento, ci diceva che “la politica non è e non deve essere mai questione personale”. Potrebbe sembrare paradossale, ma è così: la personalità che più ha contraddistinto la vita pubblica in Italia dalla sua discesa in campo fono a lunedì 12 giugno 2023, non faceva della politica una questione personale. Da vero leader e federatore aveva capito che bisognava saper trattare con alleati e avversari, saper dosare l’intuizione geniale alla riflessione pragmatica, farsi “concavo e convesso”, come lui soleva dire.

Non so se questa pacificazione finalmente arriverà a compimento, adesso che il Presidente non c’è più e che quindi non ci sarebbe più alcuna ragione d’odio, ora che il Presidente è fra le braccia della sua adorata mamma Rosa. Qualcuno forse colmerà il vuoto politico che ha lasciato. Molto più difficile, invece, che si riesca a colmare il vuoto nell’animo che la sua scomparsa ha lasciato in tanti milioni di italiani che l’hanno amato.

Personalmente devo tanto al Presidente, e a chi, seppur non conoscendomi ancora, mi venne a cercare per propormi di lavorare per lui. Ma gli devo molto di più come individuo che non come suo ex dipendente, perché quel lontano 1994 per tanti liberali, orfani del PLI, per noi che all’Università avevamo come Maestro il professor Antonio Martino, tessera n. 2 di Forza Italia, la sua discesa in campo rappresentò una speranza, una speranza che si è a mano a mano affievolita ma non si è mai spenta. Quella di un’Italia più libera e più liberale, dove ognuno, nei confronti dello Stato, possa sentirsi cittadino e non suddito.

Per premiarmi mi regalava le sue mitiche cravatte (ne ho 12) ed in una sola occasione mi rimbrottò bonariamente, quando contraccambiai regalandogli il romanzo di cui ero coautore. Mi disse: “e perché non lo hai fatto pubblicare al mio gruppo?”. Non mi aspettavo quella domanda e gli risposi d’istinto parafrasando la celeberrima frase di John Fitzgerald Kennedy: “Presidente, non mi chiedo cosa lei possa fare per me, ma cosa posso fare io per lei”. E anche lui rimase sorpreso. Fu una scenetta spontanea e un po’ teatrale, come quelle di cui forse sono capaci solo i napoletani, quelli nati a Napoli e quelli nati a Milano.

Di Carlo Garzia

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